Non ho mai sopportato mia nuora. Non perché fosse scortese o maleducata, anzi — era fin troppo gentile – RiVero

Non ho mai sopportato mia nuora. Non perché fosse scortese o maleducata, anzi — era fin troppo gentile

Non ho mai sopportato mia nuora. Non perché fosse scortese o maleducata, anzi — era fin troppo gentile. Ma c’era qualcosa in quella gentilezza che mi sembrava finta, come un bel quadro sopra un muro che sta crollando. Si chiamava Serena, e aveva sposato mio figlio Matteo due anni prima. Infermiera, capelli castani raccolti sempre in uno chignon impeccabile, voce dolce. La classica brava ragazza. Troppo perfetta per essere vera.

Io, Lina, vedova da dieci anni e abituata a cavarmela da sola, non riuscivo a fidarmi.

Poi, un giovedì di marzo, tutto è cambiato.

Avevo cucinato come ogni settimana per i miei vicini: lasagne, polpette e tiramisù. Dopo cena, ho iniziato a sentirmi male. Forte nausea, vertigini, brividi. Nel cuore della notte, l’ho capito: intossicazione alimentare.

Finisco in ospedale con flebo, esami, il cuore che fa le bizze. Matteo era fuori città per lavoro, così… è arrivata lei. Serena. Alle sei del mattino, ancora in divisa, senza aver dormito.

—Sono qui, Lina. Non ti muovere, ci penso io.

Quelle parole, così semplici, suonavano strane nella sua bocca. Ma era lì. Non se ne andò per ore. Mi portava l’acqua con la cannuccia, sistemava il cuscino, prendeva appunti quando parlava il medico. Io, che ero convinta che aspettasse solo che schiattassi per avere l’appartamento, restavo in silenzio. Sospettosa. Infastidita. Ma anche… un po’ disarmata.

—Perché ti stai dando tanto da fare? — chiesi a bruciapelo, mentre lei mi passava un asciugamano freddo per la fronte.

Mi guardò sorpresa, ma non si offese.

—Perché sei la madre dell’uomo che amo. E perché anche se non mi hai mai accettata, io ti rispetto.

Non risposi. Mi girai dall’altra parte. Ma dentro di me qualcosa cominciava a scricchiolare.

La stanza 207 divenne una trincea silenziosa, in cui Serena ed io ci osservavamo come nemiche obbligate alla tregua. Ma col passare dei giorni, la tregua divenne alleanza.

Mi raccontò di sua madre, morta di cancro quando lei aveva vent’anni. Di come aveva scelto infermieristica per “stare accanto, anche quando non si può curare”. Mi raccontò di Matteo, e di quanto lo amava. Di quanto si sentisse sempre in bilico con me, senza sapere mai se avrebbe potuto guadagnarsi un posto.

Quando mi dimisero, mi offrì un passaggio. Salimmo in auto in silenzio.

—Serena?
—Dimmi.
—Non sei come pensavo.
Lei sorrise.
—Neanche tu.

Qualche settimana dopo, le chiesi di aiutarmi a sistemare le tende. Poi a scegliere un regalo per Matteo. Poi le proposi di passare un sabato a cucinare insieme.

Un giorno, mentre impastavamo gnocchi nella mia cucina, mi disse:

—Sai… a volte penso che ti sei ammalata per farmi entrare nella tua vita.
Le risposi senza guardarla:
—O forse mi sono ammalata per guarire da un altro tipo di veleno. Il mio.

Oggi Serena è incinta del mio primo nipote. La accompagno alle visite, le tengo la borsa, mi faccio spiegare ogni dettaglio dell’ecografia.

E se qualcuno mi chiede com’è nata la nostra intesa, rispondo sempre:
—Tutto è cominciato in una stanza d’ospedale, dove ho scoperto che il cuore guarisce se gli togli il rancore.

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Non ho mai sopportato mia nuora. Non perché fosse scortese o maleducata, anzi — era fin troppo gentile
Diede alla luce cinque figli, ma al tramonto della sua vita rimase sola.