C’è un momento, subito dopo il parto, in cui ti senti nuda come mai prima: fragile, spaventata, piena d’amore e di paure. E lì, in quella stanza bianca e troppo luminosa, mentre stringevo tra le braccia mia figlia per la prima volta, ho guardato verso la porta sperando di vedere mia madre.
Invece, è arrivata mia suocera. Con le mani tremanti e gli occhi pieni di lacrime, mi ha abbracciata come fossi sua figlia. “Ce l’hai fatta, amore mio”, ha sussurrato. E io, stremata e confusa, mi sono aggrappata a lei e ho pianto.
Pianto per la gioia, sì, ma anche per il vuoto.
Nei giorni successivi, mentre imparavo a conoscere mia figlia, mia suocera era sempre lì: cambiava pannolini, cucinava, mi pettinava i capelli quando io non avevo la forza nemmeno di alzarmi. C’era ogni volta che mi sentivo sopraffatta, e mai – mai – mi ha fatto pesare nulla.
Mia madre, invece, non ha nemmeno chiamato.
Non un messaggio, non un “come va?”. Solo silenzio. Quel silenzio pesante, indifferente, che conoscevo fin troppo bene. Ma stavolta faceva più male. Perché non ero più solo una figlia trascurata. Ora ero anche una madre. E capivo. Capivo quanto amore si può provare per una creatura appena nata. E allora mi chiedevo: perché a me non era stato concesso?
Passarono settimane. Una sera, cullando la piccola in soggiorno, trovai il coraggio di scriverle. Un messaggio semplice, con una foto di sua nipote. Nessuna risposta.
Un mese dopo, invece, arrivò un pacco da mia madre. Dentro c’erano tre tutine troppo grandi e un biglietto con scritto:
“Scusa il ritardo. Sono stata molto impegnata con la piccola di tuo fratello. Spero che vi stiate sistemando.”
Chiusi il pacco lentamente. Non c’era cattiveria, solo disinteresse. Un vuoto affettivo che mi era sempre sembrato normale, finché non ho visto cos’è davvero l’amore incondizionato. Finché mia suocera non me l’ha insegnato, giorno dopo giorno.
