Vuoi che trasformi questa storia in un racconto lungo o in formato sceneggiatura? – RiVero

Vuoi che trasformi questa storia in un racconto lungo o in formato sceneggiatura?

Per dieci anni ho vissuto nell’appartamento di mio marito, credendo fosse casa mia. Lì abbiamo festeggiato compleanni, cucinato cene improvvisate, fatto l’amore tra risate e discussioni, guardato film fino a tarda notte. Ogni stanza portava l’eco della nostra storia. Eppure, in tutto quel tempo, non ho mai pensato di chiedere a chi appartenesse davvero.

Ci siamo conosciuti tardi, io a trentadue, lui a trentotto. Uomo riservato, elegante, sempre un po’ distaccato, ma con quella calma che ti fa sentire al sicuro. Dopo pochi mesi ero già dentro la sua casa, un appartamento signorile nel centro di Bologna, in un palazzo d’epoca con i soffitti alti e i pavimenti a mosaico. Mi sembrava di vivere in un sogno, e forse lo era. Ma non nel senso romantico.

Ci siamo sposati in fretta, in comune, solo noi due e una coppia di testimoni. Non ho mai voluto sapere quanto guadagnasse, non perché non mi interessasse, ma perché mi fidavo. Lui parlava poco, ma faceva tanto. Diceva che era tutto nostro, che quello era il nostro rifugio. E io gli credevo.

Lavoravo part-time in una libreria indipendente, rinunciando a offerte più redditizie per star dietro alla casa, a lui. Mi diceva che non serviva guadagnare tanto, che lui aveva abbastanza per entrambi. E in fondo era vero: vivevamo bene. Ma nel retro della mia mente qualcosa cominciava a stonare col tempo.

Dopo dieci anni di matrimonio, il cambiamento fu improvviso: un messaggio sul tavolo della cucina. “Non tornerò. Mi dispiace.” Nessuna telefonata, nessuna spiegazione. Solo silenzio. Sparito. Il suo numero disattivato, l’ufficio chiuso, gli amici all’oscuro. Come se non fosse mai esistito. Mi sentii svuotata, ma credevo almeno di avere la casa. Qualcosa di nostro.

Fu quando ricevetti una lettera di sfratto che la realtà cominciò a sgretolarsi. L’appartamento non era suo. E non era mai stato neppure in affitto. Era intestato a una società immobiliare – una società che lui stesso aveva fondato e poi venduto un anno dopo il nostro matrimonio. A mia insaputa, io ero solo un’ospite temporanea, senza alcun diritto legale.

Assunta come amministratrice di facciata di quella società nei primi anni – lui mi aveva fatto firmare dei documenti “burocratici” – avevo inconsapevolmente rinunciato a ogni diritto. Ogni firma, ogni clausola era stata calcolata con precisione chirurgica. Aveva usato la mia fiducia per costruire una trappola elegante e silenziosa. Legalmente, io non esistevo. Nessun diritto sull’immobile, nessun diritto sull’azienda. Solo il ricordo sbiadito di una vita insieme.

Indagando ancora, scoprii che aveva fatto lo stesso con un’altra donna, prima di me. Stesso schema: amore, convivenza, matrimonio veloce, sfruttamento, fuga. Era un professionista della sparizione, un truffatore dell’affetto, che trasformava i legami in strumenti. Lavorava come consulente immobiliare, ma il suo vero mestiere era manipolare le vite degli altri.

Non mi ha lasciato con nulla. Tranne una cosa: la lucidità. La consapevolezza che l’amore può essere anche una messinscena perfetta. Ho ricominciato da zero, ma questa volta con occhi aperti. E ho deciso di parlare, di raccontarlo. Perché altre donne – o uomini – non si trovino a vivere in case che non sono mai state loro, in vite costruite su promesse di cartapesta.

Avevo vissuto per dieci anni nella sua casa. Ora, finalmente, vivo nella mia.

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All’età di cinque anni, io e i miei due fratelli più grandi siamo rimasti orfani, ma abbiamo promesso di realizzare i sogni dei nostri genitori.