Non era la prima volta che discutevamo, ma fu la prima in cui non alzò la voce. Forse per questo capii subito che era finita.
“Mio marito ha deciso di divorziare da me dopo che mi sono rifiutata di continuare a sostenere sua madre.” È una frase che mi sono ripetuta in testa per mesi, come un ritornello storto, una canzone che non avevo mai scelto.
Luciano e io ci eravamo conosciuti in università. Lui studiava ingegneria, io lettere. Sembravamo venire da due mondi diversi, ma si dice che gli opposti si attraggano. Forse, all’inizio, era proprio la sua concretezza a farmi sentire protetta. Ero attratta dalla calma che sembrava sempre portarsi dietro. Solo dopo capii che quella calma era, in realtà, una resistenza sorda a ogni cambiamento.
Sua madre, Augusta, era sempre stata una figura ingombrante. Non fisicamente, ma emotivamente. Una donna dura, dal cuore chiuso, abituata a ottenere tutto quello che voleva con una frase tagliente o un silenzio pesante. Quando ci sposammo, Luciano disse che sarebbe stata una presenza minima. Ma nel giro di due anni, si era trasferita con noi “temporaneamente” per riprendersi da un intervento — e non se ne era più andata.
Non era cattiva. Ma non era nemmeno buona. Aveva il dono sottile di farti sentire sbagliata anche quando stavi facendo la cosa giusta. Correggeva il modo in cui tagliavo le verdure. Commentava i libri che leggevo. Rideva delle mie amiche. E Luciano… sorrideva e diceva: “È fatta così”.
Negli ultimi tre anni, avevo rinunciato a un lavoro a cui tenevo per restare a casa con lei dopo la frattura al femore. Avevo smesso di vedere mia sorella perché Augusta la trovava “invadente”. Avevo persino accettato che mio marito devolvesse metà del nostro risparmio per costruirle un bagno privato in camera. Ogni volta, Luciano mi prometteva: “Appena si rimette, troviamo una sistemazione migliore”. Ma quella sistemazione migliore non arrivava mai. Augusta, invece, peggiorava. O così diceva.
Quando, dopo l’ennesimo episodio — una crisi isterica perché avevo messo l’ortensie in salotto e lei detestava l’odore — mi chiusi in bagno piangendo, capii che non potevo più farlo. Non per lei. Non per lui. Non per nessuno.
“Non ce la faccio più,” gli dissi. “O trova una casa per lei, o io me ne vado.”
Luciano non mi guardò nemmeno negli occhi. Rimase in piedi, le mani lungo i fianchi, rigido.
“Se non riesci ad accettare mia madre, allora non sei fatta per questa famiglia.”
Tre giorni dopo, ricevetti i documenti del divorzio. Nessun litigio. Nessuna supplica. Solo firme da mettere.
All’inizio mi sentii in colpa. Come se fossi stata io a spezzare qualcosa di sacro. Poi cominciai a notare piccoli dettagli: il silenzio che non faceva più male, le stanze vuote che non opprimevano, ma respiravano. Comprai una nuova pianta di ortensie. La misi proprio nella stanza dove Augusta non voleva mai entrare.
La stanza divenne il mio angolo preferito.
Oggi lavoro in una biblioteca comunale. Piccola, tranquilla. Ho ricominciato a scrivere. La mia sorella “invadente” viene a trovarmi ogni sabato. Nessuno mi corregge mentre cucino. Nessuno ride dei miei gusti. Nessuno mi chiede di annullarmi per proteggere qualcun altro.
Luciano mi ha scritto solo una volta, sei mesi dopo il divorzio. Una mail fredda, impersonale: “Spero che tu stia bene.”
Non ho risposto.
Non perché non avessi niente da dire. Ma perché, finalmente, non dovevo più giustificarmi con nessuno per la mia felicità.