Mi chiamo Elena, ho sessantotto anni e vivo in una casa che un tempo traboccava di voci, passi frettolosi e sogni appesi al frigorifero. Ora ci sono solo le pareti, mute e testimoni di una solitudine che non ho scelto. Ho dato tutto alle mie figlie. Tutto.
Io e mio marito Marco eravamo giovani e pieni di speranze. Quando sono nate Anna e Chiara, abbiamo promesso che non avrebbero mai dovuto lottare come noi. Rinunciammo a viaggi, cene fuori, sogni di carriera. Marco accettò un lavoro che odiava per garantirci sicurezza. Io lasciai l’università, e con essa, la mia passione per l’arte. Ma lo rifarei. Ogni volta.
Le accompagnavamo ovunque: danza, inglese, catechismo, psicologi quando piangevano troppo, vacanze studio a Oxford. Eravamo sempre lì. Anche quando non ci vedevano. Anche quando si arrabbiavano perché non capivano le rinunce.
E ora? Ora Anna vive a Zurigo. È manager in una società farmaceutica. La sento ogni due mesi, forse. “Scusa mamma, sono incasinata, ti richiamo.” Chiara invece è a Milano, con due figli che conosco solo tramite video. “Passa quando vuoi”, dice. Ma ogni volta che vado, sembra che invada un equilibrio fragile, come una finestra aperta in inverno.
Non chiedo gratitudine. Ma mi chiedo: quando hanno smesso di vedermi? Quando sono diventata solo una voce al telefono, una notifica da rimandare?
L’altra sera, mentre guardavo una vecchia foto – noi quattro in riva al mare, Anna che ride e Chiara che tiene un secchiello – ho sentito qualcosa dentro rompersi. Forse è questo il prezzo dell’amore totale: non lasciare nulla per sé.
Eppure, non provo rabbia. Solo un dolore sordo. Come un albero che ha dato frutti per anni e ora resta con i rami nudi, mentre le sue radici cercano ancora un po’ di calore.