Il giorno in cui venimmo cacciate di casa dalla madre di Marco, avevo ventisei anni, una bimba di due, un’altra in grembo e la dignità a pezzi.
“Non sei mai stata abbastanza per mio figlio,” mi aveva detto sua madre, con gli occhi freddi come il marmo. “E ora che lui non c’è più, non ho motivo di mantenere te e le tue figlie.”
Marco era morto da tre mesi. Un incidente in moto. Una curva, un camion, il buio. Da allora vivevamo a casa della suocera, in quella villetta che puzzava di silenzi e rimpianti. Non avevo un lavoro. Avevo lasciato tutto per crescere i nostri figli. E lei, senza preavviso, ci mise letteralmente alla porta. Un sacco con i nostri vestiti, due bambine piangenti e la pioggia a lavar via gli ultimi brandelli di orgoglio.
Per un po’ dormimmo in macchina, poi in un centro di accoglienza. Io raccoglievo cartoni la notte, pulivo scale la mattina, e studiavo contabilità nel pomeriggio, mentre le bambine stavano a scuola o con volontari.
Passarono gli anni. Undici, per l’esattezza.
Una mattina d’inverno, uscivo da una riunione con l’assessore comunale — stavo discutendo un progetto per l’inserimento lavorativo delle donne in difficoltà — quando la vidi.
Era curva su un bidone, infreddolita, le mani coperte da guanti bucati. Non la riconobbi subito. Portava un cappotto liso, i capelli bianchi raccolti malamente. Solo quando alzò lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono, mi colpì un’ondata di ricordi.
“Signora Adele?” dissi, fermandomi a pochi metri da lei.
Mi guardò come se vedesse un fantasma. Poi balbettò: “Caterina…?”
Annuii.
Non disse nulla. Solo abbassò lo sguardo. Era evidente che non voleva pietà, ma neanche aveva la forza di fuggire da quella vergogna.
Scoprii che, negli anni, aveva perso tutto. Una truffa immobiliare, un tumore curato troppo tardi, poi l’orgoglio che l’aveva tenuta lontana da chi poteva aiutarla. I parenti si erano allontanati. Non aveva più nessuno.
Le dissi: “Venga con me.”
“No,” rispose, tremante. “Non posso accettare carità da te. Dopo quello che ti ho fatto.”
La guardai negli occhi. “Non è carità. È giustizia.”
Le trovai un posto nel mio centro di accoglienza. Una stanza calda, pasti regolari, controlli medici. All’inizio non parlava con nessuno, mangiava da sola. Poi iniziò a offrire tè alle altre ospiti. Le bambine – ormai ragazze – la incontrarono dopo qualche mese. Nessuna recriminazione. Solo rispetto. Cresciute nella povertà, avevano imparato che l’odio è un peso inutile.
Un giorno mi avvicinò, mentre sistemava delle coperte.
“Non so come ringraziarti,” sussurrò.
Le sorrisi. “Lo hai già fatto.”
“Quando?”
“Quando mi hai cacciata. Perché è stato allora che ho capito quanto valevo. E che potevo farcela anche senza l’approvazione di nessuno.”
Lei abbassò lo sguardo. E per la prima volta in vita mia, la vidi piangere.