Era passata un’ora buona da quando Clara aveva iniziato a strappare le erbacce accanto alla tomba di Matteo. Il silenzio del cimitero era ormai parte di lei: lo stesso silenzio che da due anni le parlava più di qualunque voce. Ogni sabato arrivava con il secchio d’acqua, una spazzola morbida per la lapide, e fiori – sempre freschi, sempre bianchi.
Quel sabato, però, qualcosa spezzò la consuetudine. Mentre attraversava il vialetto centrale con passo lento, notò una figura accovacciata accanto alla tomba. Una donna, sulla quarantina, ben vestita, i capelli raccolti con cura, stava pulendo con gesti dolci e precisi la stessa lapide che Clara aveva pulito mille volte. La sconosciuta sembrava assorta, quasi in trance. Poi fece qualcosa che lasciò Clara paralizzata: posò la mano sulla fotografia in ceramica del defunto, e mormorò qualcosa a labbra strette, come se stesse chiedendo perdono.
Clara si nascose dietro la siepe più vicina. Il cuore le martellava nel petto. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi. Rimase lì, in silenzio, fino a che la donna non si alzò e, senza voltarsi, si allontanò lentamente lungo il viale dei cipressi.
Nei giorni successivi, Clara tentò di razionalizzare. Forse era una vecchia collega. O un’amica d’infanzia. Ma dentro di lei cresceva un sospetto oscuro: che fosse l’amante. La donna che aveva condiviso con Matteo qualcosa di nascosto, qualcosa che Clara non avrebbe mai potuto immaginare. Un tradimento postumo, più doloroso proprio perché senza possibilità di confronto, senza una spiegazione.
Per un anno intero tornò ogni sabato, come sempre. Non rivide più quella donna. Forse era stata una visione. O un saluto tardivo.
Poi, il giorno del compleanno di Matteo, la vide di nuovo. In piedi, vestita di nero, un mazzo di calle bianche in mano. Stavolta, Clara trovò il coraggio.
«Mi scusi… conosceva mio marito?»
La sconosciuta si voltò. Aveva occhi scuri, profondi, gonfi di lacrime che sembravano trattenute a forza. «Sì,» disse semplicemente. E poi, dopo un attimo: «Molto bene.»
Clara si irrigidì. «Era… un’amica?»
La donna abbassò lo sguardo. «Non proprio. Posso… raccontarle qualcosa? Ma deve promettere di ascoltarmi fino in fondo.»
Sedettero su una panchina poco distante. La sconosciuta si chiamava Elena. E la verità che raccontò, lentamente, sbriciolò l’immagine che Clara aveva custodito di suo marito per vent’anni.
Elena non era un’amante. Era la sorella di un uomo morto vent’anni prima, in un incidente stradale in cui Matteo, il marito di Clara, era stato coinvolto. Un incidente di cui nessuno, tranne i familiari delle vittime, aveva mai saputo i dettagli. Il caso era stato archiviato come incidente fortuito, ma Elena non aveva mai creduto alla versione ufficiale. Anni di ricerca l’avevano portata a scoprire che Matteo non solo era coinvolto, ma che aveva coperto alcune verità per evitare la responsabilità legale. Un secondo di distrazione, un cellulare alla guida, e un’auto invasa contromano. Due morti, tra cui suo fratello.
«Non sono venuta per vendetta,» disse Elena. «Ho scoperto tutto solo dopo la sua morte. Mi ero promessa che, se avessi avuto la possibilità, gli avrei detto che lo perdonavo. Ma è arrivato prima il cancro. Così, ora, vengo qui solo per ricordare a entrambi chi ha sofferto. Anche chi non c’è in questa tomba.»
Clara era impietrita. Non riusciva a parlare. Matteo non aveva mai fatto menzione di quell’incidente. Aveva cambiato città l’anno dopo. Aveva cambiato tutto. Lei non aveva mai chiesto. Mai indagato.
«Mi dispiace se le ho dato l’impressione sbagliata,» disse infine Elena, alzandosi. «Ma ci tenevo che sapesse chi sono. E che, nonostante tutto, ho deciso di lasciarlo andare. Anche io.»
Clara rimase sola, con il secchio ancora pieno d’acqua accanto ai piedi. Guardò la lapide di suo marito. Per la prima volta da anni, le sembrò di non riconoscere il volto nella foto.
Non fu tradimento. Fu qualcosa di peggio: una verità sotterrata così a fondo da avere radici.
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