Ma non avrei mai pensato che arrivasse a tanto – RiVero

Ma non avrei mai pensato che arrivasse a tanto

Ho portato a casa da sola due neonati dopo il parto. Nessuno mi aveva detto che la solitudine avrebbe fatto più male dei punti di sutura. Li tenevo stretti al petto, uno per braccio, e cercavo di tenere a bada il tremore che non sapevo se fosse febbre o panico.

Mio marito, Pietro, era cambiato nei mesi della gravidanza. Non subito, non apertamente. All’inizio era solo stanchezza, poi silenzi, poi rabbia, infine parole dure che non sembravano neanche sue. Diceva che c’era qualcosa di “strano” in me, che i bambini “non erano giusti”, anche prima che venissero al mondo. Io lo attribuivo alla paura, allo stress, alla sua mente fragile erosa da una religione fatta in casa, rimescolata con superstizioni della nonna e ore su internet in forum oscuri.

Ma non avrei mai pensato che arrivasse a tanto.

Quando li vide, in ospedale, si irrigidì. La bambina aveva un neo scuro sotto l’occhio destro, e il maschietto — lo so, può sembrare ridicolo — sembrava avere un sorriso stampato in volto, fin da subito. Pietro indietreggiò. Disse che non erano suoi figli, che erano “mandati da qualcosa”. Gli occhi spiritati, il respiro corto. Prima che chiunque potesse fermarlo, si avvicinò, sputò addosso ai neonati urlando parole confuse, una specie di preghiera spezzata. Poi scappò. Nessuno lo ha più visto.

Dissi all’ospedale che era uno scatto psicotico. Non raccontai tutto: la sua ossessione per i simboli, le notti passate a disegnare strane figure sul retro degli armadi, né le frasi che ripeteva in lingue che non conosceva. Nessuno avrebbe capito, forse neanche io.

Tornai a casa con i bambini. La casa era fredda, piena dell’assenza di lui, ma anche della sua presenza marcia. Buttai via i suoi libri, bruciai i disegni. Ma ogni notte, quando il vento soffiava troppo forte tra i rami secchi fuori dalla finestra, sentivo come un sussurro. E ogni notte, puntuale, i bambini si svegliavano nello stesso istante. In silenzio. Occhi aperti, fissi sul soffitto.

Il medico diceva che erano sani. I controlli erano perfetti. Ma c’era qualcosa. Lo sentivo. A volte li trovavo svegli all’alba, avvolti nelle coperte esattamente come li avevo messi, ma con gli occhi rivolti verso l’angolo in alto della stanza. Sempre lo stesso.

Una notte decisi di restare sveglia. Quando l’ora arrivò, vidi qualcosa: non un’ombra, ma un vuoto. Uno spazio che sembrava succhiare luce. Non durò che un attimo. Poi i bambini si addormentarono di nuovo, come se nulla fosse.

Cominciai a scrivere tutto. Ogni dettaglio. Ogni sogno. Ogni variazione nella loro routine. Una notte, in sogno, Pietro tornò. Ma non era lui. O non solo lui. Diceva: “Te li hanno dati perché sei l’unica che può tenerli. Ma non saranno mai come gli altri.” La voce non era la sua, ma usciva dalla sua bocca.

Eppure, non avevo paura. Anzi, nel tempo, cominciai a capire: non erano maledetti. Erano… diversi. I miei figli vedevano cose che io non vedevo. Sentivano ciò che il resto del mondo aveva dimenticato. Erano creature tra due soglie: quella della vita e quella dell’invisibile.

Li crebbi con amore, insegnando loro il silenzio e la verità. Il mondo li avrebbe chiamati “strani”, io li chiamavo “donati”.

Ogni tanto qualcuno bussa alla porta. Uomini con giacche grigie, donne troppo sorridenti. Vogliono fare test, osservare. Io non apro.

Mio marito non è più tornato. Ma a volte, quando l’aria si fa densa e le luci tremolano senza motivo, credo che sia ancora lì, nell’ombra che guarda. E io sorrido.

Perché lui non li ha mai capiti.

Io sì.

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