Non c’erano messaggi. Nessuna chiamata. Solo il silenzio. – RiVero

Non c’erano messaggi. Nessuna chiamata. Solo il silenzio.

Non c’erano messaggi. Nessuna chiamata. Solo il silenzio.

Quando rientrai a casa e non trovai più Charlie, il mio labrador nero, pensai che fosse scappato. Ma la porta era chiusa, la finestra anche. Era impossibile.

Fu allora che vidi il biglietto, scarabocchiato in fretta sul retro di uno scontrino:

“Non ce la facevo più. L’ho portato al rifugio. — M.”

M. stava per Martina. La mia ragazza — ormai ex.

La rabbia mi colpì prima del dolore. Charlie era con me da quattro anni, prima ancora di Martina. Lo avevo preso dopo la morte di mio padre, e non era solo un cane. Era un pezzo di famiglia.

Corsi al rifugio, cuore in gola, mani che tremavano. Quando pronunciai il nome “Charlie”, la ragazza dietro il bancone digitò qualcosa al computer, poi si fece seria.

— Mi dispiace, non abbiamo più nessun Charlie registrato qui.

— Com’è possibile? È stato portato oggi!

— Sì, ma… — esitò — secondo il sistema, un uomo con un documento falso è venuto un’ora dopo il deposito. Ha detto di essere il proprietario. Ha firmato e se l’è portato via.

Mi congelai.

— Avete le telecamere?

— Certo, ma dovremmo avere un mandato per mostrarle…

Non aspettai. Uscii, chiamai un amico nei carabinieri. Non era una procedura ufficiale, ma dopo qualche insistenza, ottenni uno screenshot della sorveglianza.

L’uomo che aveva preso Charlie non lo conoscevo. Ma qualcosa mi colpì. Indossava un giubbotto militare sbiadito, con una toppa logora sull’omero sinistro: Squadra K9 – Emergenze Speciali.

Quel reparto era stato sciolto tre anni prima.

Seguendo il poco che avevo, scoprii una rete clandestina di addestramento cani, finanziata da privati per scopi oscuri. Voci parlavano di cani addestrati a fiutare metalli rari, esplosivi o… esseri umani.

Ogni indizio mi portava più vicino a una realtà assurda, dove i cani venivano “reclutati” per operazioni paramilitari illegali.

Charlie non era un cane qualunque. Aveva un olfatto fuori dal comune, lo sapevo. Lo avevo visto una volta trovare una chiave smarrita sotto un pavimento rotto.

Dopo due settimane di ricerche, telefonate e incontri in parcheggi di periferia, trovai un nome: Tenente Sirok, un ex militare cacciato con disonore. Viveva in un capannone fuori città.

Una notte, con il cuore in gola e una torcia in mano, mi intrufolai lì.

Lo vidi.

Charlie era lì. Legato, ma in buona salute. Quando mi vide, emise un guaito basso e leccò l’aria. Gli occhi gli brillavano. Lo riconoscevo ovunque.

Non persi tempo. Tagliai la corda con un coltello da campeggio e lo liberai.

Ma non facemmo nemmeno tre metri.

— Ti sei spinto troppo oltre, ragazzo — disse una voce alle mie spalle.

Era il Tenente Sirok.

Pensavo fosse finita. Ma Charlie si mise davanti a me, ringhiando con un’intensità che non gli avevo mai visto. E poi si lanciò.

Il resto è confuso: lotta, urla, un colpo sordo. Fuggimmo nella notte. Charlie con una zampa zoppicante, io con un taglio sulla guancia.

Denunciai tutto. E finalmente la polizia prese sul serio le prove. La rete fu smantellata. Non completamente, ma abbastanza.

Martina mi scrisse due settimane dopo: “Non volevo farti del male. Credevo che ti legassi più a lui che a me.”

Non risposi.

Charlie era tornato. Cambiato, come me. Ma ogni tanto, mentre dorme, muove le zampe come se corresse in sogno. E io mi chiedo dove sia ancora, nella sua testa.

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