Il sole di metà maggio illuminava la periferia di Bologna con una luce limpida e piena di promesse. Jacopo, ventiquattro anni, osservava il riflesso del suo volto nello specchio opaco dello studio del dermatologo. La pelle del suo collo, un tempo ricoperta da un dragone giapponese che si arrampicava fino alla mascella, era arrossata ma sorprendentemente liscia. Il tatuaggio era quasi sparito.
Non che odiasse i tatuaggi. Anzi, li aveva amati tutti. Erano stati mappe emotive, tappe del suo percorso — ogni disegno una cicatrice scelta, un atto di ribellione o di memoria. Ma da quando era nata Mia, la sua bambina, qualcosa dentro di lui aveva iniziato a cambiare. Ogni volta che la teneva in braccio e lei lo fissava con quegli occhi curiosi, Jacopo sentiva che la pelle che portava addosso raccontava una storia che non voleva più tramandare.
Il primo a sparire era stato il teschio sulla mano destra. Lo aveva fatto fare a diciassette anni, per sembrare più duro di quanto fosse. Poi era toccato alla scritta “NIENTE DA PERDERE” lungo l’avambraccio — perché ora, finalmente, qualcosa da perdere ce l’aveva.
Il processo era lungo, doloroso e costoso. Ma Jacopo non si lamentava mai. Ogni seduta era, in fondo, una piccola vittoria. Ogni centimetro di pelle che tornava chiara era un passo verso la persona che voleva diventare per sua figlia: qualcuno che potesse darle un esempio, qualcuno che sapesse cambiare.
Non lo faceva per gli altri. Non per i giudizi, né per le occhiate storte delle nonne al parco. Lo faceva perché voleva che Mia sapesse che l’amore si mostra anche così: con scelte difficili, con sacrifici silenziosi, con la volontà di crescere insieme.
Una volta, mentre le passava una mano tra i capelli, lei gli chiese:
«Papà, perché non c’hai più il lupo sul collo?»
Jacopo sorrise.
«Perché ora c’è qualcosa di più bello da mostrare.»
«Cosa?»
«Te.»