Dopo la nascita del piccolo Tommaso, la casa di Elena si era trasformata in un campo di battaglia silenzioso: coperte ovunque, biberon sterilizzati allineati come soldatini e pianti notturni che interrompevano sogni mai iniziati.
Elena era diventata nonna da tre mesi. Sua figlia, Giulia, dirigente di una multinazionale farmaceutica, aveva deciso di rientrare al lavoro già dopo sei settimane. “Mi gioco la promozione,” aveva detto. Il padre del bambino, Andrea, era spesso in trasferta. Così, giorno dopo giorno, era toccato a lei, la nonna, colmare i vuoti.
Alle otto spaccate Elena si presentava con la sua borsa di tela, un sorriso e tanta pazienza. Si occupava di tutto: cambio pannolini, poppate, nanna, panni sporchi, bagnetto, colichette e coccole. Ma, soprattutto, donava a quel bambino un amore che andava oltre la stanchezza. Non chiedeva nulla in cambio, nemmeno un “grazie”.
Un giorno però, tornando dalla passeggiata con il piccolo Tommaso addormentato nel marsupio, Elena entrò in cucina per farsi uno spuntino. Aveva camminato per più di un’ora e sentiva le gambe molli. Aprì il frigorifero e prese una mela e una fetta di formaggio.
«Posa tutto subito,» disse Giulia, appena rientrata, con tono glaciale. «Non voglio che prendi niente dal frigorifero. Quel cibo lo paghiamo noi.»
Elena si voltò lentamente. «Giulia… sto qui dalle otto del mattino. Non vado a casa neanche per pranzo. Pensi che un pezzetto di formaggio sia troppo per una madre che ti aiuta senza chiedere nulla?»
«Non ho voglia di discutere. Se vuoi mangiare, porta le tue cose. Non siamo un ristorante.»
Fu in quel momento che qualcosa si spezzò. Non nel cuore – quello era abituato a rompersi – ma nella fiducia.
Elena non disse nulla. Il giorno dopo non si presentò. Né quello dopo. Al terzo giorno, Giulia la chiamò.
«Mamma, dove sei? Tommaso piange da stamattina. Ho dovuto lavorare con lui in braccio.»
Elena rispose con calma: «Hai ragione. Non sei un ristorante. E io non sono una babysitter gratuita. Porta il bambino al nido, come fanno le altre madri. Io ho finito.»
Ci fu silenzio. Poi lacrime, urla, promesse. Ma Elena non tornò subito.
Solo dopo una settimana, una sera, sentì bussare alla porta. Giulia era lì, spettinata, con un contenitore in mano.
«Ho cucinato la tua zuppa preferita. Possiamo parlare?»
Sedute a tavola, con un termosifone acceso e la zuppa fumante, Giulia scoppiò a piangere.
«Sono stata ingiusta. Ho sbagliato. Ma non so chiedere aiuto senza sentirlo come un fallimento. Tu mi hai insegnato a cavarmela da sola. Ma forse ho frainteso il senso della forza.»
Elena le prese la mano. «La forza non è negare agli altri ciò che ti è stato donato con amore. La forza è riconoscere che da soli, a volte, non si va lontano.»
Giulia annuì. E quella sera, per la prima volta da settimane, madre e figlia mangiarono insieme, senza tensione. E il frigorifero, simbolicamente, rimase aperto.