Ogni sabato mattina, alle 9 in punto, Clara si recava al cimitero di San Vitale.
Portava con sé un mazzo di gigli bianchi, una piccola spazzola, uno spruzzino con detergente per pietra, e silenzio. Quello stesso silenzio che le era rimasto dopo la morte improvvisa di Giorgio, suo marito, portato via da un infarto nel sonno appena due anni prima. Avevano condiviso ventotto anni di vita, senza figli, con viaggi, serate lente e discussioni brevi.
Clara curava quella tomba come si cura un altare. Era l’unico luogo dove sentiva che lui, in qualche modo, poteva ancora ascoltarla. Le bastava restare lì seduta, accanto al marmo freddo, per sentirsi meno sola.
Ma una mattina d’autunno, qualcosa cambiò.
Accanto alla tomba di Giorgio c’era una donna. Vestiva in modo semplice, un cappotto beige e scarpe da ginnastica. Non piangeva, non pregava. Puliva con gesti delicati la stessa lapide che Clara lucidava ogni settimana.
Quando finì, appoggiò la mano sulla fotografia incastonata nel marmo. Una carezza lenta. Come un perdono.
Clara si nascose dietro un cipresso. Rimase immobile, con il cuore in gola.
Chi era quella donna?
La sua mente, veloce, costruì l’unica spiegazione possibile: un’amante.
Non la affrontò. Non ne ebbe il coraggio. La sconosciuta se ne andò pochi minuti dopo, lasciando dietro di sé una rosa nera.
Da quel giorno, Clara tornò ogni sabato ancora più presto, sperando di sorprenderla di nuovo. Ma la donna non si fece più vedere.
Passò un anno. Un anno di domande, sospetti e notti insonni.
Poi venne il compleanno di Giorgio. Clara portò due candele, una piccola bottiglia di vino e un libro che lui amava. E lì, di nuovo, c’era lei. Come fosse apparsa dal nulla.
Clara, questa volta, non scappò.
Si avvicinò.
«Mi scusi… conosceva mio marito?»
La voce le tremava, ma cercò di mantenerla ferma. La donna si voltò. Aveva occhi stanchi ma sinceri.
«Sì. Lo conoscevo.»
Un gelo scese su Clara. «Eravate… vicini?»
La donna esitò. Poi tirò fuori una foto.
Era Giorgio. Più giovane. In piedi accanto a un’altra donna — simile a lei. Sul retro, una scritta sbiadita: “Io e Anna. 1987.”
«Quella accanto a lui sono io. E no, non ero la sua amante. Ero sua sorella.»
Clara sgranò gli occhi. «Sorella? Giorgio non aveva…»
«Non parlava di me. Non da quando ci siamo divisi per colpa di nostro padre. Un’eredità, una discussione, orgoglio. Non ci siamo più cercati. Lui scelse di vivere come se fossi morta. E io… l’ho lasciato fare. Ma non ho mai smesso di pensare a lui.»
Clara sentì un dolore diverso dentro di sé. Non rabbia, non gelosia.
Un rimorso che non le apparteneva. E una tristezza che ora condividevano.
«Ogni anno provavo a chiamarlo. Mai risposta. Poi ho letto il necrologio per caso. Sono venuta qui per chiedergli scusa. Per non aver insistito abbastanza. Per avergli permesso di morire senza sapere che gli volevo ancora bene.»
Restarono in silenzio, tra il rumore lontano delle foglie e il canto dei corvi.
«Mi dispiace di aver pensato male di lei», disse Clara.
La donna sorrise debolmente. «L’avrei fatto anch’io, al suo posto.»
Si sedettero accanto alla tomba, una a destra, l’altra a sinistra. E parlarono per ore. Di Giorgio bambino, dell’uomo che era stato, delle sue paure e delle sue stranezze. Era come ricostruire un mosaico da due metà che non si erano mai incontrate.
E quando Clara tornò a casa, quella sera, non si sentì più sola.
Non del tutto, almeno.