Mia suocera trovò due bambini in fondo a un pozzo abbandonato, li portò a casa mia e mi chiese di crescerli. Li accolsi con me e li amai come se fossero miei. – RiVero

Mia suocera trovò due bambini in fondo a un pozzo abbandonato, li portò a casa mia e mi chiese di crescerli. Li accolsi con me e li amai come se fossero miei.

Era un pomeriggio grigio di fine ottobre quando mia suocera bussò alla porta con gli occhi pieni di qualcosa che non avevo mai visto: sgomento, forse. O timore. O un mistero che stava per travolgermi.

Stava tremando. Indossava ancora i suoi stivali da campagna e teneva stretta una coperta logora. Dentro quella coperta… due bambini.

Erano sporchi, silenziosi, immobili. Un maschietto e una femmina, sembravano avere non più di sei o sette anni. Avevano i capelli arruffati, i vestiti strappati e un odore di terra umida e tempo perduto.

«Li ho trovati in fondo al pozzo vecchio, vicino al bosco dietro la fattoria,» disse mia suocera con voce tremante. «Non so chi siano. Ma… mi hanno guardata come se sapessero già tutto di me. Non ho potuto lasciarli lì. Ho sentito che dovevo portarli da te.»

Rimasi in silenzio. Mio marito era morto da tre anni. Niente figli. Troppo tardi, dicevano i medici. Troppo tardi, dicevo anche a me stessa. E ora due bambini misteriosi mi guardavano dalla soglia di casa, come se stessero aspettando da sempre proprio me.

Li feci entrare. Lavai loro il viso, tagliai le unghie, diedi loro da mangiare. Dormirono per quattordici ore filate nel letto degli ospiti. Non dissero una parola per i primi cinque giorni. Solo occhi spalancati e silenzio.

Il sesto giorno, la bambina parlò.

«Mi chiamo Mila,» disse. «Lui è Eli. Non abbiamo mamma. Non abbiamo papà. Ma tu… tu hai una voce che sa di casa.»

Piangei. Perché, senza capire come, mi ero già innamorata di loro.

Feci denuncia, ovviamente. Parlai con i servizi sociali, con la polizia. Ma nessuno li stava cercando. Nessun bambino scomparso corrispondeva alla loro descrizione. Nessun villaggio vicino aveva mai visto quei volti.

E poi ci fu quella strana visita, due settimane dopo. Un uomo anziano, con un cappello sgualcito, bussò alla mia porta. Disse di essere uno studioso di folklore locale.

«Siete vicini al Pozzo delle Voci,» disse. «La leggenda narra che ogni cento anni, il pozzo restituisca due anime dimenticate. Bambini che il tempo ha perso. Cercano una madre. E se trovano chi li accoglie, restano.»

Risi. Una risata nervosa, carica di incredulità. Ma quando tornai in casa e guardai Mila e Eli giocare in salotto con i miei vecchi peluche, capii che la verità non sempre ha bisogno di prove.

Sono passati cinque anni.

Li ho iscritti a scuola, li porto al parco, cucino loro la minestra come faceva mia madre con me. Mi chiamano “mamma”, anche se non gliel’ho mai chiesto. Non mi interessa da dove siano venuti. Li amo. E loro amano me.

Ogni tanto, li guardo e mi chiedo se siano davvero figli di un pozzo magico, o semplicemente bambini dimenticati da un mondo troppo distratto. Ma poi Eli mi abbraccia all’improvviso, o Mila mi lascia un bigliettino sul cuscino: “Sei la nostra casa.”

E allora capisco: non importa da dove vengono. Importa solo dove hanno deciso di restare.

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Mia suocera trovò due bambini in fondo a un pozzo abbandonato, li portò a casa mia e mi chiese di crescerli. Li accolsi con me e li amai come se fossero miei.
All’età di cinque anni, io e i miei due fratelli più grandi siamo rimasti orfani, ma abbiamo promesso di realizzare i sogni dei nostri genitori.