Le conversazioni diventavano sempre più lunghe, gli sguardi sempre più complici, alla fine, mi ha invitata a cena. – RiVero

Le conversazioni diventavano sempre più lunghe, gli sguardi sempre più complici, alla fine, mi ha invitata a cena.

Le mie amiche dicevano che avevo perso la testa quando ho iniziato di nuovo a interessarmi agli uomini. “A cinquant’anni suonati, che ti aspetti?” dicevano, tra un sorso di prosecco e un’occhiata malcelata alle rughe altrui. Ma io non cercavo promesse, né miracoli. Volevo solo riscoprire quella scintilla. Sentirmi viva, bella, desiderata. Importante.

Poi è arrivato lui. Vittorio.

Era il mio vicino di casa. Non ce ne eravamo mai davvero accorti l’uno dell’altra, fino a quando un giorno ci siamo trovati seduti sulla stessa panchina al parco. I nostri cani hanno fatto amicizia prima di noi. Poi, piano piano, abbiamo iniziato a parlare. Di libri, di musica, di quanto faccia male svegliarsi e non trovare nessuno con cui condividere il caffè.

Le conversazioni diventavano sempre più lunghe, gli sguardi sempre più complici. Alla fine, mi ha invitata a cena. Ma io — ancora non so dire se per romanticismo o per stupidità — ho proposto: “Vieni da me. Cucino io.”

Quel sabato ho fatto tutto come si deve. Ho preparato il mio famoso risotto allo zafferano con funghi porcini, ho acceso le candele, ho persino lucidato i bicchieri di cristallo ereditati da mia nonna. Alle sette in punto, precise come un orologio svizzero, ha suonato il campanello.

Ho aperto la porta… e sono rimasta di sasso.

Vittorio era lì. Ma non era solo.

Accanto a lui c’era… un cane. Ma non il solito meticcio piccolo e tranquillo. No. Un mastino napoletano enorme, bava alla bocca e occhi colmi di entusiasmo. “Spero non sia un problema,” ha detto, con un sorriso incerto. “Non sopporta di stare solo.”

Mi sono impietrita. “Hai portato il cane?” ho chiesto, cercando di non urlare.

“Pensavo… insomma… che sarebbe stato carino. Fa parte della mia vita.”

Non ho fatto in tempo a rispondere: il bestione si è precipitato dentro casa, ha annusato tutto, ha abbattuto un vaso, e in meno di due minuti ha messo le zampe sul tavolo. Sul risotto. Sul mio risotto.

Candele rovesciate, tovaglia tirata via, bicchieri in frantumi. Il profumo dello zafferano svanito tra bava e peli di cane. E io lì, in piedi, con il vestito buono, le mani sui fianchi, e una dignità a pezzi.

“Penso sia meglio che tu vada,” ho detto, con una calma che non sapevo di avere.

Lui ha abbassato lo sguardo. “Mi dispiace. Davvero. Non volevo rovinare tutto.”

“No. Ma l’hai fatto.”

Ha preso il guinzaglio, il cane gli ha leccato una mano, e sono usciti in silenzio.

Quella sera ho mangiato pane secco e insalata, da sola. Poi ho riso. Di cuore. Perché anche quello era vivere: aprire la porta con entusiasmo e ritrovarsi in una tragicommedia.

Non ho più rivisto Vittorio. Ma ho tenuto il vaso rotto. Ci ho piantato dentro del basilico. Cresce benissimo.

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Le conversazioni diventavano sempre più lunghe, gli sguardi sempre più complici, alla fine, mi ha invitata a cena.
Una volta, mentre le passava una mano tra i capelli, lei gli chiese