Era il giorno più importante della mia vita. O almeno, così lo avevo chiamato per mesi. Gli esami di ammissione per la Royal School of Engineering, l’università che avevo sognato da quando avevo tredici anni. La mia sveglia era impostata per le 6:30, puntuale, doppia allerta, con vibrazione. Il cellulare carico al 100%, poggiato sul comodino. Il vestito pronto, la cartella preparata. Tutto calcolato al secondo.
Quando ho aperto gli occhi, il sole era già alto. E qualcosa, subito, non tornava.
La mia stanza era silenziosa. Troppo silenziosa. Nessun rumore di traffico, nessuna voce in cucina, nessun odore di caffè. Ho guardato l’orologio: 8:42.
Gli esami iniziavano alle 8:30.
Ho lanciato le coperte per aria, preso il telefono: spento. Premo il tasto di accensione. Niente.
Lo attacco al caricatore. Nulla. Batteria morta.
Eppure… era carico la sera prima.
Corro in cucina. Mia madre è seduta al tavolo, con un’espressione difficile da leggere. Una tazza di tè tra le mani.
«Mamma… la sveglia non ha suonato!»
Silenzio.
«Hai spento la sveglia?» chiedo, con voce tremante.
Lei non risponde subito. Solo abbassa lo sguardo.
Poi, in un sussurro: «L’ho fatto io.»
Il mondo si ferma.
«Cosa?»
«L’ho fatto io. Stamattina presto. Sono entrata nella tua stanza e ho spento tutto.»
Mi mancava l’aria. «Perché? Perché lo hai fatto?»
«Perché voglio che resti qui. Perché ho paura che tu vada via e non torni più. Tuo padre ci ha lasciati per un lavoro all’estero. E tu… tu sei tutto quello che ho.»
La sua voce si spezza. «Non riesco a sopportare l’idea di essere di nuovo sola.»
La rabbia mi sale in gola come un’onda amara. Ma insieme a quella, qualcosa dentro di me si incrina. Mia madre, con le sue paure troppo umane, ha sabotato il mio sogno. Ma non l’ha fatto per cattiveria. Lo ha fatto per amore. Un amore storto, egoista, ma disperato.
«Hai rovinato tutto…» mormoro.
«No,» dice lei. «Puoi ancora fare qualcosa. Chiama. Spiega. Vai. Forse non sarà troppo tardi.»
Prendo le chiavi, corro, prendo la bici. Il campus è a venti minuti, ma ci metto dodici. Arrivo trafelato, sudato, con il fiato spezzato. Le aule sono già chiuse. Ma vedo una porta socchiusa, un docente che raccoglie i moduli.
«Aspetti! Aspetti! Mi chiamo Luca Ferri. Posso ancora sostenere l’esame? La mia sveglia… mia madre…»
Mi blocco. Non so nemmeno che storia raccontare.
L’uomo mi guarda a lungo. Poi: «Hai cinque minuti. Se non ti siedi ora, è finita.»
Mi siedo.
L’esame scorre via in apnea. Esco con le mani tremanti. Non so se ce l’ho fatta.
Due settimane dopo, ricevo una mail.
“Congratulazioni, Luca. Benvenuto alla Royal School of Engineering.”
Rimango fermo davanti allo schermo. Poi corro in cucina. Mia madre è di nuovo lì, la stessa tazza, le stesse mani.
Non dico nulla. Solo le mostro la mail.
Scoppia a piangere.
Quella mattina non l’ho mai dimenticata.
Non solo perché ho rischiato di perdere tutto.
Ma perché ho capito che a volte, i sogni vanno inseguiti anche contro chi ti ama.
E che anche chi ti ama, può sbagliare… profondamente.
Ma può anche chiedere scusa. E lasciarti volare.