Nel 1993 mi fu lasciato un bambino sordo. Mi assunsi il ruolo di madre, ma non potevo immaginare cosa lo aspettasse nel futuro.
La consapevolezza arrivò come un lampo all’alba, mentre il sole iniziava a penetrare tra le fessure delle tende. Un’idea si fece strada nella mia mente, chiara e ineluttabile: non sarebbe stato facile, ma non avrei mai permesso che Ilja si sentisse mai diverso, mai solo.
Misha ed io avevamo un legame forte, ma quella mattina, con Ilja che dormiva tranquillo nella sua culla, capii che il nostro mondo stava cambiando per sempre. Sapevo che avremmo dovuto adattarci, imparare insieme a vivere in un modo completamente nuovo, ma il più grande timore che avevo era che Ilja non fosse mai riuscito a sentirsi amato come meritava.
Iniziai a studiare. Leggere, chiedere, cercare. Mi dedicai anima e corpo alla ricerca di modi per comunicare con lui, nonostante la sua sordità totale. Ogni giorno cercavo nuove tecniche, un modo per fargli capire il mondo che lo circondava, per trasmettergli l’amore che sentivo nel cuore.
Misha mi guardava, preoccupato, ma fiducioso. Non mi diceva mai nulla, ma vedevo negli occhi la stessa determinazione che aveva avuto quando, anni prima, mi aveva detto che ce l’avremmo fatta a diventare genitori, anche se la medicina ci dava solo speranze lontane. Ora, nonostante tutto, la nostra casa era piena di amore, e Ilja era la nostra ragione di vita.
Nel tempo, cominciai a insegnargli la lingua dei segni. All’inizio fu difficile, ma il piccolo Ilja imparò rapidamente, come se avesse sempre saputo che quella sarebbe stata la sua unica via di comunicazione. Le sue dita, così piccole e goffe, si muovevano con grazia mentre imparava a esprimersi. Ogni parola che formava con le mani era un piccolo trionfo, un passo verso un futuro che, fino a poco tempo prima, sembrava lontanissimo.
A scuola, trovai una maestra specializzata per Ilja. Un incontro fortuito con un’amica di vecchia data, che lavorava come insegnante di sordomuti, cambiò tutto. Lei mi introdusse in un mondo che nemmeno sapevo esistesse, dove le barriere della comunicazione non erano insormontabili, ma solo un’altra sfida da superare.
Ilja si adattò a questa nuova vita come un pesce nell’acqua. Presto non solo imparò a comunicare, ma sviluppò anche una straordinaria sensibilità nei confronti degli altri. La sua capacità di “sentire” le emozioni attraverso gli sguardi, i gesti e il linguaggio del corpo, lo rendeva più empatico di quanto avessi mai immaginato.
Misha ed io cominciammo a frequentare altre famiglie con bambini sordi. Scoprimmo un intero mondo che prima non conoscevamo, un mondo di sorrisi, di sguardi complici, di mani che si intrecciavano nel silenzio. La sordità non era una maledizione, ma una lingua diversa da quella che avevamo sempre parlato. Era un mondo fatto di silenzi profondi, ma anche di suoni che solo chi era pronto a sentirli poteva capire.
Un giorno, mentre Ilja giocava con altri bambini nella piazza del villaggio, mi accorsi di qualcosa che mi fece gelare il sangue. Un altro bambino, un po’ più grande, si avvicinò a Ilja con un’espressione di curiosità e confusione. Ilja lo guardò intensamente e, con un sorriso che parlava più di mille parole, gli fece un gesto con le mani. Il bambino, confuso, provò a imitare, ma la sua espressione cambiò rapidamente in uno sguardo di frustrazione.
Capivo cosa stava accadendo. Non tutti erano pronti ad accettare la differenza. Non tutti avevano imparato a comprendere il silenzio. Ma io sapevo che, alla fine, Ilja sarebbe stato la nostra forza. Lui non sarebbe stato diverso. Lui sarebbe stato semplicemente Ilja, con la sua lingua, il suo mondo, la sua capacità di comunicare che andava al di là delle parole.
Il futuro, per Ilja, era ancora un’incognita. Ma sapevo che, qualunque cosa sarebbe successo, non avrebbe mai camminato solo. Noi eravamo la sua famiglia, il suo mondo di parole e silenzi, di risate e sguardi, e soprattutto, di amore.
La sua voce, pur non essendo un suono, risuonava nel nostro cuore ogni giorno.